Intelligenza Artificiale e Intelligenza Emotiva: la collaborazione del futuro

Articolo scritto con Giacomo Bosio apparso su QI – Quale Impresa – La rivista dei giovani imprenditori – maggio/giugno 2019

 

Possono intersecarsi e collaborare Intelligenza Artificiale e Intelligenza Emotiva? In questo contesto di incertezza ed estremamente mutabile, di vera scoperta della tecnologia e del digitale, porci questa domanda e trovare le risposte è fondamentale

Siamo immersi in un contesto economico e sociale che viene definito VUCA, sempre più volatile, complesso, incerto e ambiguo che sta rivoluzionando le nostre vite e in particolare l’organizzazione delle imprese e del lavoro

Le nuove scoperte in ambito tecnologico, in particolare l’Intelligenza Artificiale, stanno impattando fortemente sia l’ambito sociale sia quello organizzativo, e d’altra parte è sempre più necessario sviluppare delle competenze “soft”, che consentano di adattarsi in maniera sostenibile al nuovo scenario.

Da un lato, alcune attività, soprattutto quelle più ripetitive, ma anche quelle cognitive, verranno svolte da algoritmi di Intelligenza Artificiale, mentre diventa sempre più strategico allenare le capacità emotive e relazionali, tipiche dell’Intelligenza Emotiva.

Come possono intersecarsi questi due mondi apparentemente molto diversi e distanti?

Intelligenza artificiale e intelligenza emotiva: cosa sono?

Possiamo farci tante domande, pensare a varie applicazioni, ragionare su scenari fantascientifici e apocalittici, ma chiediamoci, innanzitutto, cosa siano queste due intelligenze.

Intelligenza artificiale

/in·tel·li·gèn·za ar·ti·fi·cià·le/

L’intelligenza artificiale è una disciplina che studia i fondamenti teorici, le metodologie e le tecniche che consentono la progettazione di sistemi hardware e sistemi di programmi software capaci di fornire all’elaboratore elettronico prestazioni che, a un osservatore comune, sembrerebbero essere di pertinenza esclusiva dell’intelligenza umana.

Intelligenza emotiva

/in·tel·li·gèn·za e·mo·tì·va/

L’intelligenza emotiva è un aspetto dell’intelligenza legato alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni. È la capacità di relazionarsi in maniera efficace, entrando in empatia con l’altro, oltre alla capacità di darsi una direzione di vita.

Intelligenza artificiale: opportunità e sfide

Se dicessimo che le nostre vite e il nostro lavoro non saranno in alcun modo intaccati da questo cambiamento, diremmo qualcosa di molto lontano dalla realtà.

Le opportunità offerte dai sistemi che fanno uso di intelligenza artificiale sono molteplici: le macchine sono oggettivamente più efficienti e veloci di noi umani nella gestione e interpretazione di grandi moli di dati, nell’effettuare calcoli complessi e nell’automatizzare processi.

In pratica, potremmo creare un sistema per la gestione dei nostri Clienti in grado di rispondere 24 ore su 24, 7 giorni su 7, senza stancarsi.

Potremmo anche avere un software in grado di analizzare le conversazioni online relative al nostro brand per capire quello che è il sentiment intorno al nostro marchio e analizzare le azioni/reazioni che si verificano sui vari canali in seguito a una campagna marketing.

Potenzialità che vanno probabilmente oltre la nostra immaginazione e che creano non pochi dubbi sull’utilizzo e l’eticità di questo tipo di tecnologie. Gli algoritmi di machine learning e deep learning hanno subìto una tale evoluzione da riuscire a risolvere problemi che anni fa avremmo ritenuto impossibili e, quando lo fanno, l’umano non è sempre in grado di ricostruire il processo cognitivo della macchina. In sintesi: sai che ha funzionato e che il risultato è corretto, ma non sai sempre il perché.

Tutto questo avrà sicuramente anche un impatto sui lavori: non è un caso che il 60% degli attuali lavori possa essere automatizzato al 30% con l’utilizzo di sistemi intelligenti[1] e che il World Economic Forum ipotizzi che 5 milioni di posti di lavoro andranno persi nei prossimi anni a causa dell’intelligenza artificiale (AI), della robotica e altri fattori socioeconomici.

Quali competenze diventeranno più importanti per essere competitivi sul posto di lavoro del futuro?

Secondo le discussioni del WEF, nell’ambito dello studio del “Future of work”, Intelligenza emotiva, adattabilità e disponibilità ad apprendere, saranno le capacità che maggiormente consentiranno la sopravvivenza dei posti di lavoro. Infatti, l’Intelligenza Emotiva è indicata dal WEF al 6° posto tra le 10 competenze che saranno sempre più richieste nelle persone a partire dal 2020, che è alle porte.

Nasceranno altri lavori, nuove competenze: è quindi fondamentale guardare all’innovazione con particolare attenzione, al fine di non farsi trovare impreparati anche e soprattutto su quelle competenze che vedono le macchine in svantaggio rispetto all’umano.

Perché è importante l’intelligenza emotiva?

L’Intelligenza Emotiva (IE o QE quoziente emotivo) è l’abilità di utilizzare le emozioni in maniera efficace: è un insieme di competenze che ci permette di integrare la parte razionale del nostro cervello con quella emozionale.

Riguarda la comprensione di noi stessi, dei nostri umori e sentimenti, dei nostri obiettivi. È la capacità di auto-motivarci e gestire i nostri stati mentali ed emotivi anche quando siamo sotto stress. Significa comprendere l’altro e le sue emozioni per rapportarci in modo efficace aumentando il coinvolgimento nei nostri obiettivi.

Nel lavoro, sicuramente ha più probabilità di avere successo chi ha delle competenze tecniche più sviluppate di altri e un QI maggiore. Ma spesso non è proprio così scontato, anzi, l’intelligenza analitica da sola non basta.

Le competenze tecniche ovviamente servono, ma da sole non sono sufficienti a farci avere successo nella vita. Ricerche mostrano che oltre il 50% dei fattori di successo di una persona, quindi la sua performance personale, e dunque la sua efficacia, dipendono dall’Intelligenza emotiva[2].

Chi ha una IE sviluppata agisce intenzionalmente invece che reagire, è quindi capace di creare uno spazio di riflessione che, integrando emozioni e dati analitici, porta ad una capacità decisionale più efficace e sostenibile.

Daniel Goleman, psicologo americano esperto di IE, ha dichiarato che quando si tratta di prendere una decisione importante, la parte relativa alla spinta emozionale conta in media l’88%. Essere consapevoli delle proprie emozioni è quindi fondamentale per prendere delle decisioni veramente efficaci, anche in situazione di forte stress.

Se sappiamo essere coscienti delle emozioni e riusciamo ad integrarle con la nostra parte razionale, aumenteremo la conoscenza di noi stessi, la nostra capacità relazionale e la nostra efficacia nel raggiungere gli obiettivi. Al contempo riusciremo a coinvolgere gli altri nella nostra missione.

Le emozioni sono infatti delle informazioni che ci arricchiscono, sono energia che possiamo utilizzare e ascoltare per avere maggiore consapevolezza.

Le abilità dell’IE sono fondamentali per la leadership, il team work, il customer care, le relazioni personali e la salute.

Inoltre, queste competenze possono essere acquisite e allenate per aumentare la propria IE e quindi la propria performance.

Integrare le capacità di Intelligenza Emotiva significa favorire la trasformazione delle competenze delle persone da hard skills, legate ad una visione fordista dell’organizzazione, a soft skills, necessarie per un’industria innovativa.

Uno scenario di collaborazione uomo – macchina

Che fare, quindi? Non ci resta che utilizzare le competenze umane per progettare e collaborare con le macchine.

La progettazione di un sistema intelligente non ci esime da considerare le basi di quella che è l’interazione uomo – macchina e di come noi umani siamo abituati ad interagire con quello che ci circonda.

Lato utente, poi, dobbiamo iniziare a non vedere più le macchine e i sistemi intelligenti come meri strumenti, ma come partner. Tecnologia non in sostituzione dell’umano, quindi, ma al nostro servizio con il fine di estendere quelle che sono le nostre capacità per compensare le nostre debolezze e compiere task in maniera più efficiente e veloce.

Un esempio? Un team dell’Università di Harvard ha compiuto un esperimento sulla diagnosi del cancro. L’intelligenza artificiale, da sola, è riuscita a fare una diagnosi corretta nel 92% dei casi. Risultati migliori per il medico esperto, che ha raggiunto il 96% di successo. Il dato incredibile, però, è quello che è uscito dalla collaborazione fra uomo e intelligenza artificiale, dove si è registrata una diagnosi corretta nel 99,5% dei casi.

In effetti AIDP (Associazione Italiana Direttori del Personale), nella ricerca “Robot, intelligenza artificiale e lavoro in Italia“, conferma che per il 56% delle aziende, l’intelligenza artificiale avrà soltanto la finalità di supportare le persone. AI come estensione delle attività umane e non un rischio per la loro sostituzione. Si parla in questo caso di Augmented Intelligence[3].

La Trasformazione

C’è un altro dato interessante che emerge dall’analisi di un panorama fatto di soft skill e di nuove competenze tecnologiche: le imprese che meglio si stanno comportando su tematiche legate alla Trasformazione Digitale, sono proprio quelle che promuovono molto il lavoro in team, valorizzando la partecipazione dei lavoratori.

Si parla quindi di organizzazioni che abbandonano la vecchia gerarchia verticale per lasciare spazio a quella orizzontale, dove la leadership diffusa diventa centrale e dove le nuove tecnologie diventano un aiuto e un incentivo a mantenere attive le relazioni. Trasformazione che può essere possibile solo grazie allo sviluppo e all’integrazione di competenze “soft” che facilitino la collaborazione e la comunicazione nell’organizzazione e che rendano le persone più flessibili e veloci nell’accogliere i cambiamenti sempre più repentini.

Proprio da queste pagine, parlavamo del cambio culturale necessario per avviare in azienda un progetto di smart working. Evoluzione delle competenze, nuove tecnologie, soft skill, team smart e un nuovo modo di concepire il lavoro nello spazio e nel tempo: questi gli ingredienti del lavoro del futuro. Perché l’innovazione è prima di tutto un’opportunità.

[1]Fonte: dati Osservatori Politecnico di Milano

[2] https://www.6seconds.org/2019/03/12/white-paper-emotional-intelligence-and-success/

[3] IBM si riferisce a Watson, il suo motore di AI, parlando di Augmented Intelligence e non di Artificial Intelligence.

Paura e rabbia sono energia?

Come queste emozioni diventano strumenti utili per agire con Intelligenza Emotiva

Le emozioni che più vedo, leggo sui social, ascolto dalle persone con cui sono in contatto (virtuale soprattutto visti i tempi), in questi giorni surreali dell’emergenza Coronavirus, sono la paura e la rabbia.

Paura e rabbia sono spesso considerate emozioni negative.

Parlando in termini di Intelligenza Emotiva, nessuna emozione è positiva o negativa in sé, dipende dall’utilizzo che ne facciamo, da come la tramutiamo in azione.

Le emozioni sono piacevoli o poco piacevoli.

Sicuramente rabbia e paura sono poco piacevoli, ma sono molto utili.

La paura mi può spingere a scappare, ad attaccare, a bloccarmi di fronte ad un evento inatteso e a muovermi senza prima capire le conseguenze del gesto che sto per fare, quindi agire con poca coscienza (come vedo in questi giorni).

La paura tra l’altro è un’emozione atavica, che viene dalla parte del nostro cervello più istintiva e che per secoli ci ha consentito di sopravvivere.

Allo stesso tempo però, mi sta indicando che c’è in gioco qualcosa di importante per me.

Le emozioni influenzano i pensieri e i pensieri influenzano le emozioni.

Le emozioni sono energia che possiamo utilizzare in maniera efficace.

Usare le emozioni in maniera “emotivamente intelligente” vuol dire stare dentro quell’emozione, ascoltare cosa mi sta dicendo di me, utilizzarla per qualcosa di utile

Ho paura? Allora cercherò di capire meglio come muovermi in una situazione difficile, come prepararmi bene per quell’esame, fare azioni per proteggere ciò che mi è caro.

Al contrario, non ascoltare le emozioni, nasconderle, minimizzarle, negarle o dare libero sfogo non è un comportamento emotivamente intelligente.

Allo stesso modo, la rabbia è un’emozione che se canalizzata nella giusta direzione mi aiuta a muovermi magari per fare qualcosa di utile, a mettermi al servizio dell’altro se sento che c’è stata un’ingiustizia.

In termini di competenze dell’Intelligenza Emotiva, nel modello di Six Seconds, questo si chiama “Navigare le emozioni”

Domande per rafforzare questa competenza

Per allenarti a navigare le emozioni fatti queste domande, che attingo dalle preziose carte EQ di Six Seconds:

  • Come stanno interagendo i tuoi pensieri e le tue emozioni?
  • Hai delle convinzioni che stanno influenzando le tue emozioni?
  • Qual è l’elemento di saggezza chiave insito nelle tue emozioni attuali?

Riflessioni personali

Non sono solita raccontare i miei fatti personali, ma vorrei condividere come ho utilizzato paura e rabbia in questi giorni di emergenza e destabilizzazione.

Vivo a Milano da oltre 16 anni, la amo, amo l’energia vitale che mi trasmette e le possibilità che ci offre, e che impegnandoti puoi cogliere.

In questo momento mi trovo in Sardegna, mia terra d’origine, dal 22 di febbraio. Sono partita in un momento in cui ancora non era chiara la gravità della situazione e dovevo rimanere solo 4/5 giorni. Una visita ai miei genitori già pianificata.

Mi sono trovata già il giorno dopo in una situazione inattesa e mai sperimentata. Destabilizzata.

Mi sono messa in quarantena volontaria e venerdì scorso è stato l’ultimo giorno. Ora rimarrò qui fino a che la situazione non migliorerà e soprattutto spostarsi non comporterà rischi più per nessuno.

Ho utilizzato la paura di ledere ai miei cari e agli altri per prendere queste decisioni.

E ho usato la rabbia che mi è scaturita nel leggere comportamenti poco responsabili per scrivere questo post.

E tu come puoi usare saggiamente rabbia e paura?

Se vuoi leggere qualcos’altro sull’Intelligenza Emotiva ne ho scritto in questo post

Il coaching come modello di leadership

In un contesto economico e sociale sempre più complesso e variabile, dove si delineano nuovi modelli organizzativi più orizzontali e partecipativi, in che modo il coaching può essere adottato come approccio e modello di leadership?

Riporto il mio articolo scritto per gli amici di HEI – Human Experience Insights apparso per la prima volta sul loro sito.

In un momento in cui la parola “coach” è sempre più abusata, è importante fare chiarezza su cosa è il coaching professionale e in che modo può contribuire a creare nuovi approcci alla leadership organizzativa.

Mai come ora siamo stati di fronte ad un contesto economico e sociale in continua evoluzione, sempre più complesso. Cambiamenti improvvisi e impattanti fanno sì che le aziende siano chiamate ad adattarsi a nuovi scenari per sopravvivere o mantenere inalterata la produttività, agendo sui modelli organizzativi e culturali che siano anche sostenibili. Siamo di fronte a grandi sfide che, però, ci offrono grandi opportunità per apportare un cambiamento effettivo verso una visione umano-centrica delle organizzazioni che finalmente sia agita e non solo teorizzata.

Si parla di VUCA world (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) proprio per definire un ambiente complesso in cui i cambiamenti si susseguono in modo sempre più repentino e imprevedibile, rendendo più difficile e faticoso il continuo adattarsi agli eventi, alle situazioni, ai processi.

Ormai è necessario non solo essere in grado di stare dietro ai cambiamenti, ma, inoltre, cercare di anticiparli.

È emblematica, in tal senso, l’affermazione di Kalus Schwab, Fondatore e Presidente del World Economic Forum: “In futuro, non sarà il pesce grande a mangiare il pesce piccolo. Sarà il pesce veloce a mangiare quello più lento”.

La rivoluzione digitalee l’adozione dell’intelligenza artificiale, infatti, rendono velocemente obsoleti processi e procedure, e costringono persone e aziende a ricercare e sviluppare nuove competenze sia hard che soft.

L’avanzare della tecnologia e dell’AI, se da un lato appare minaccioso– operando una distruzione e un ricambio delle competenze richieste per la professione – dall’altra, suggerisce di puntare proprio sulle capacità relazionali-emotive, non sostituibili dalle macchine.

Nuovi modelli organizzativi

Oltre a questo, ci troviamo di fronte ad un cambiamento nelle organizzazioni, sia strutturale che generazionale.

teamsono sempre più “virtuali”, anche grazie al crescente utilizzo dello smart working, e si rende necessario ripensare il lavoro in gruppo e in sinergia, creare il coinvolgimento e soprattutto il senso di appartenenza all’azienda. Il modello verticale basato sul controllo del lavoro, infatti, inizia a mostrare i suoi segni di debolezza.

Entro il 2020, inoltre, i Millennials– che presentano caratteristiche molto diverse rispetto alle generazioni precedenti – costituiranno il 50% della forza lavoro. Secondo una ricerca di durata pluriennale condotta da Deloitte, questi ultimi apprezzano uno stile di leadership aperto, trasparente e collaborativo, ambiscono ad ottenere una qualità più alta del loro tempo libero, maggiore flessibilità e coinvolgimento, ma anche a dare più “senso” a quello che fanno.

A ciò si aggiunge il fallimento di organizzazioni di tipo verticale, altamente burocratizzate, e il delinearsi di altri modelli organizzativi più orizzontali e partecipativi, che favoriscono una leadership diffusa – in alcuni contesti si parla anche di andare verso organizzazioni leaderless.

Che tipo di leadership si potrebbe sviluppare?

Queste dinamiche così delineate suggeriscono quindi un cambio di paradigma verso un approccio di leadership più partecipativo, che abbandoni le strette verticalizzazioni gerarchiche e che passi da una logica di controllo ad una più orientata all’obiettivo, al coinvolgimento delle persone e, soprattutto, alla loro crescita personale e professionale, puntando sul potenziamento delle proprie capacità. In sostanza, un leader che cerchi di spogliarsi dei panni del “capo” per indossare quelli del coach, favorendo così un cambiamento culturale all’interno dell’azienda.

Cos’è il coaching?

Secondo la definizione dell’International Coach Federation (ICF)

il coaching è una partnership con i clienti che attraverso un processo creativo stimola la riflessione ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale

L’accento è sulla partnership, quindi sulla creazione di una relazione win-win, dove il risultato desiderato è proprio il processo di sviluppo e potenziamento delle persone, non il raggiungimento dell’obiettivo come fine a sé stesso. La parola “obiettivo” non è contenuta nella definizione, in quanto il risultato non è strettamente il fine ultimo del coaching ma il mezzo per favorire l’accelerazione nel raggiungerlo, sebbene non esista un processo di coaching senza un obiettivo prefissato e misurabile.

Un approccio di leadership che integri delle competenze di coaching è quindi volto a creare uno spazio di riflessione strategico ed evolutivoin risposta alla necessità di flessibilità, che allena il saper leggere e affrontare il cambiamento, per capire dove si sta andando e allenare le competenze necessarie ad affrontare le continue evoluzioni.

Quali sono le competenze per sviluppare una leadership “più coaching”?

Di seguito una serie di competenze che possono rendere un leader “più coach”, che si richiamano alle 8 competenze chiave nel coaching secondo ICF:

  • Stabilire gli obiettivi

Come un coach, il leader accompagna i suoi collaboratori a fissare gli obiettivi e a identificare le azioni per raggiungerli, facendo emergere le soluzioni e non imponendole dall’alto, creando momenti di apprendimento per il singolo e il team. Lavorare per obiettivi consente di sfuggire alla logica di controllo, agevolare una maggiore partecipazione ai processi decisionali e coinvolgere le persone, facilitando il monitoraggio basato sui risultati raggiunti piuttosto che sulle attività svolte.

  • Ascolto attivo

L’ascolto in questo tipo di approccio è attivo, nel senso che si basa sull’apertura all’altro, è un sentire autentico e privo di giudizio; solo in questo modo si è in grado di ascoltare davvero qualcuno in maniera empatica ed efficace.

Proprio come nel coaching, il leader domanda e ascolta, favorendo la riflessione. La domanda, infatti, è lo strumento principe del coaching. Una domanda apre all’altro scenari che prima non aveva visto o considerato.

È il dialogo, fatto di domande e risposte, che aiuta l’altro a ricercare e a mettere in luce la sua soluzione o un comportamento non più efficace che non aveva ancora focalizzato. In questo senso il coaching è maieutico: fa emergere le soluzioni semplicemente accompagnando l’altro verso una migliore visuale della situazione, in maniera autonoma, per conoscere meglio sé stessi.

Il coach non dà consigli proprio per questo: non impone la sua verità. Il leader coach, in sostanza, non impone soluzioni ma le fa emergere dal contesto, favorendo l’autonomia e l’assunzione di responsabilità in un’ottica di partnership collaborativa.

  • Facilitare un clima di Fiducia

La relazione di coaching si basa sulla reciproca fiducia e capacità di creare un ambiente sicuro e di supporto che genera continuo rispetto reciproco. Il leader coach sviluppa relazioni di fiducia partendo dall’ascolto attivo e dalle domande, creando i presupposti per coinvolgere le persone negli obiettivi aziendali, creando un ambiente dove i collaboratori si sentano rispettati e in grado anche di sentirsi liberi di esprimersi in un conflitto costruttivo che apra al confronto e a soluzioni creative e innovative, senza paura di ripercussioni per essersi esposti.

Come ci insegna anche Stephen M.R. Covey, la fiducia è la prima competenza della leadership che si può apprendere e allenare, oltre ad essere un driver economico che accelera i risultati economici e di performance del team. Senza fiducia, infatti, non esiste la capacità di delega, un altro strumento importante per il leader che guida le persone attraverso il raggiungimento degli obiettivi.

  • Dare feedback costruttivi

Il coach utilizza anche la comunicazione diretta e specialmente lo strumento del feedback come momento di crescita e sviluppo dell’altro e della relazione. In un’ottica coaching, il feedback non è un giudizio o un parere, ma si basa su fatti e comportamenti effettivamente agiti e osservati, e soprattutto è un regalo che viene fatto all’altro per il suo apprendimento. In questo senso si può creare una cultura del feedback per un impatto positivo sulle persone, non riducendo i momenti di confronto alle occasioni istituzionali come la restituzione della performance, ma creando degli spazi di incontro e scambio al fine di una reciproca crescita, collaborazione e fiducia.

Il coaching come approccio sistemico

In sintesi, lo stimolo che vorrei portare è di considerare un approccio coaching alla leadership pensandolo come sistemico, dove al centro sia riposta la crescita delle persone come veicolo dello sviluppo dell’organizzazione stessa. Questo vuol dire che affinché le aziende cambino l’approccio culturale e organizzativo bisogna andare ben oltre la formazione di pochi singoli leader.

Come sostenuto da Richard Buckminster Fuller, “non si cambiano mai le cose combattendo contro la realtà esistente. Per cambiare qualcosa, bisogna costruire un modello nuovo che renda obsoleto quello vecchio”.

Per approfondire leggi le mie pagine dedicate al coaching

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Sei il regista o uno spettatore del film della tua vita?

Ti senti bloccato in una situazione in cui non sai cosa fare, oppure lo sai benissimo, ma non lo fai? Stai facendo lo spettatore del film della tua vita!

Una delle mie passioni è il cinema. Adoro perdermi nella trama, ammirare la fotografia, apprezzare la capacità performativa dell’attore.

Il tutto seduta in poltrona, dove al massimo mangi i pop corn (la mia amica Rosita me lo impedirebbe), commenti, ti commuovi, ridi. Se una scena non ti piace, non apprezzi la fotografia, e neanche il finale, non puoi dire “stop! Ripetiamo tutto” come potrebbe fare invece il regista, che crea e plasma la narrazione con la sua creatività.

Ora immagina che il film proiettato sia la tua vita e tu lo spettatore che la guardi scorrere.

Ti è mai successo di essere bloccato in una situazione in cui non sai cosa fare, oppure lo sai benissimo, ma non lo fai?

Ecco, equivale ad stare seduto in poltrona ad assistere al film della tua vita, e non riesci a decidere la trama, quale scena ripetere (o magari era buona la prima), quali inquadrature favorire.

E intanto scorre davanti a te.

Essere regista della tua vita vuol dire prendere in mano le decisioni, fare delle azioni concrete, per arrivare al gran finale che desideri.

Vuol dire prenderti la responsabilità di guidare le tue scelte.

La responsabilità personale, un valore in cui mi sento impegnata, sulla quale il coaching va sicuramente ad agire.

La responsabilità come valore

Sono rimasta colpita, anni fa, dai risultati dell’indagine sui “Valori della Nazione” realizzata da VocAzione nel 2013 in Italia, in cui la responsabilità personale appare nella classifica tristemente al 48esimo posto (in Svizzera risulta al primo posto, in Svezia al quarto e negli Stati Uniti al sesto).

Questo fa intuire la tendenza, ancora adesso valida probabilmente, degli italiani a sentirsi poco protagonisti della vita politica, economica e sociale del nostro paese, dove le persone sentono di poter avere scarsa influenza su quello che gli accade, poco responsabili della propria vita.

E cosa c’entra con il coaching?

Quante volte ho sentito da parte dei miei clienti le frasi:

  • È colpa mia/sua/loro!
  • Non posso farci niente, non dipende da me.

L’utilizzo del termine “colpa” spesso sottende un senso di disagio, impotenza, un significato emotivamente non piacevole.

Allenarsi con il coaching ad aprire spazi di riflessione più ampi, ad elaborare strategie e piani d’azione, quindi a compiere gesti concreti verso l’obiettivo, aiuta a passare dal concetto di colpa a quello di responsabilità.

Porta a chiedersi “cosa posso fare io?”.

Vuol dire passare dal sentirsi vittima delle circostanze, di una situazione, ad una presa di coscienza della propria capacità d’azione e auto determinazione.

È più facile pensare di non poter cambiare la situazione in cui siamo, e rivolgersi all’esterno (spesso inconsciamente) per trovare i colpevoli dei nostri insuccessi o semplicemente i responsabili di quello che ci sta succedendo.

In genere, se sentiamo di avere poco senso del controllo su qualcosa, siamo anche più portati a non assumercene la responsabilità.

In che modo il coaching stimola la responsabilità personale?

Sono diversi i modi in cui il coaching si rivela uno strumento utile per sviluppare la responsabilità personale.

Il coaching, innanzi tutto, attraverso la definizione di obiettivi reali, e quindi stimola il senso del controllo.

La persona, grazie alle domande del coach, focalizza l’obiettivo desiderato, visualizza la situazione una volta raggiunto l’obiettivo, prevede i tempi, misura il suo impegno e riconosce il valore che egli stesso attribuisce alla sua meta.

Decidendo di dedicare tempo ed impegno alla realizzazione del suo progetto se ne assume quindi la responsabilità.

Lo sviluppo e l’attuazione del piano d’azione portano ad esperienze di successo ed elevano il senso del controllo nelle persone, costruendo una maggiore fiducia nella propria autoefficacia.

Nell’Intelligenza Emotiva la competenza “esercitare l’ottimismo” sta proprio ad indicare l’abilità di sentirsi o meno, capaci di trovare una soluzione ed agirla, ritenersi registi della propria vita insomma. Lavorare su questa competenza è fondamentale per raggiungere gli obiettivi.

Ma chi? Io?

L’ho vissuto anche io il passaggio dal “è colpa di” al rimboccarmi le maniche e assumermi le mie responsabilità, quando ho incontrato casualmente il coaching, ovviamente!

In una delle prime sessioni di coaching (come coachee), dopo una lunga esplorazione di quella che era la situazione che io volevo migliorare arrivò la classica e doverosa (e, in quel momento, per me potentissima) domanda da coach “cosa puoi fare tu per risolvere questo problema?”.

Non ricordo esattamente cosa risposi, forse niente, ma ricordo perfettamente di aver pensato “Ma chi, io? Io non posso farci niente, non dipende da me!”. Non è colpa mia!

Ero abituata a pensare di non poter avere impatto nella mia vita, o di averne solo in minima parte, spesso proiettavo all’esterno le responsabilità e quella domanda, che sottintendeva la possibilità di agire in prima persona per cambiare la situazione, ebbe il potere di illuminarmi e spingermi all’azione.

E quindi avevo agito, cambiando la situazione. In meglio, ovviamente!

Da quando ho raggiunto questa consapevolezza ho imparato un nuovo modo di rapportarmi alla mia vita. Riesco a focalizzarmi sulle soluzioni più che sul problema per cercare di risolverlo e mi sento più regista della mia vita.

E tu? Il tuo piano d’azione

Mi rendo conto che non è facile cambiare il proprio modo di pensare, il paradigma, ma il cambiamento può iniziare anche da un solo piccolo passo.

  • Pensa ad una situazione che senti “ingessata”, prova a scrivere come vorresti che fosse invece la situazione, come se si fosse realizzata (al presente, indicativo e in positivo).
  • Scrivi qualche azione che potrebbe portare più vicino a quella situazione desiderata.
  • Individua una piccolissima azione tra queste che potrebbe “rompere il ghiaccio” e decidi di farla entro pochi giorni, dandoti una scadenza.

Hai appena scritto un obiettivo e un piano d’azione!

Provaci e fammi sapere come va, se vuoi! Scrivimi una mail: cmelis@coachingpower.it

Sei sicuro di volere la promozione?

Fare carriera e diventare “capo” è un’ambizione di molti, ma è anche un grosso cambiamento. Tu sei pronto?

Finalmente dopo anni sembra essere il tuo turno! Hai ottenuto una promozione e guiderai un team di persone.

Fare carriera e ricoprire incarichi di responsabilità è l’obiettivo di molti. Non solo per il compenso economico, ma anche per il riconoscimento che questo comporta, da parte dell’azienda e dei propri responsabili. È poi una prova tangibile che si sta lavorando bene e che i nostri sforzi sono stati ripagati.

Ma è tutto oro quello che luccica? Sei veramente preparato a fare il salto di qualità?

Ho già parlato in un mio precedente post di Marco che non era stato promosso perché non aveva i requisiti “giusti”, qui affronto le sfide che devi affrontare quando aumenta il tuo ruolo di responsabilità.

Non è tutto oro quel che luccica

Spesso fare carriera internamente, cioè crescere nella stessa azienda, è un gran cambiamento, e come tale, se non gestito, e affrontato con i giusti strumenti e preparazione, può mettere in difficoltà.

Sicuramente te lo sei meritato, hai lavorato tanto, ti mantieni costantemente aggiornato, non ti sei mai tirato indietro di fronte a carichi di lavoro impegnativi e lavori bene con i tuoi colleghi.

A cambiare non sarà solo il tuo “job title” su LinkedIn e il tuo posto nell’organigramma aziendale, ma la sfida è sia dal punto di vista pratico che dal punto di vista della tua forma mentis del lavoro.

Infatti, quando ti trovi a gestire un team, per quanto tu possa essere preparato nelle competenze tecniche, devi sviluppare (o accrescere) delle competenze e degli strumenti.

Quali sono le sfide?

Prima colleghi ora collaboratori

Una prima difficoltà a cui ti puoi trovare davanti è che quelli che prima erano i tuoi colleghi diventano i tuoi collaboratori. Se già gestivi un team di persone e ora sei responsabile dell’intera area, ora diventerai il capo dei tuoi ex parigrado.

Anche se hai dei rapporti splendidi dal punto di vista personale e lavorativo, il modo di relazionarsi deve cambiare per forza di cose.

Se magari le risorse più junior potrebbero non risentire del cambiamento nel team, i colleghi con la seniority simile alla tua, in alcuni casi maggiore, possono accusare il colpo.

E non riconoscerti come capo, il che ti farà tribolare un bel po’.

Pensa a quelle situazioni in cui il capo arrivava con la richiesta di produrre quei dati “per ieri” perché c’era un’urgenza e tu e i tuoi colleghi vi guardavate tra di voi alzando gli occhi al cielo. Ecco, ora il capo sei tu! E spesso dovrai fare delle richieste del genere perché arrivano dall’alto e non puoi dire di no.

In questo caso, sicuramente ci vorrà del tempo per accettare la nuova situazione, ma devi essere bravo tu a gestire il nuovo contesto con un po’ di pazienza, adottando un comportamento più consono al nuovo ruolo e trovare il nuovo equilibrio.

Certo se sei sempre andato con loro a prendere il caffè o in palestra, ora dovresti comunque rimodulare opportunità e modo di rapportarti fuori e dentro l’ufficio con nel tuo nuovo incarico.

Cambiare prospettiva, diventare meno operativo e delegare

L’azienda ora si aspetta da te non più di smazzare numeri e produrre decine di report, ma molto di più: che tu sappia gestire il tuo lavoro e quello delle altre persone.

Dipende dal ruolo, ma sicuramente il tipo di lavoro che andrai a svolgere sarà più volto al coordinamento del lavoro e delle risorse.

E ovviamente devi essere meno operativo, che ovviamente non vuol dire che devi smettere di lavorare, ma alcune cose che facevi prima le devi delegare per poi verificarle una volta fatte.

Non puoi fare il lavoro che svolgono già i tuoi colleghi e sovrapporti.

Dovrai avere uno sguardo “più alto” sull’attività, sviluppare la visione d’insieme e coordinare invece che macinare i dati.

Devi sviluppare delle capacità trasversali

Già perché appunto puoi essere bravissimo sulle capacità tecniche, ma ora devi sviluppare capacità relazionali e di leadership.

Questo attiene maggiormente alla sfera dell’Intelligenza Emotiva, alle famose soft skills che ormai sono necessarie per chiunque, figurarsi per chi ricopre ruoli di responsabilità.

Intendo la capacità di ascoltare attivamente, coinvolgere, gestire le emozioni e lo stress, tanto per citarne qualcuna.

Dovrai sviluppare nuovi strumenti

Devi anche dotarti di strumenti quali:

  • Dare un feedback. Avevo già affrontato questo argomento in un post, non è facile dire certe cose e trovare il giusto modo per farlo, ma ora che hai delle responsabilità non puoi mancare di farlo con i tuoi collaboratori. Anche se difficile è per loro, ma anche per te, una grande occasione di crescita. Allo stesso modo dovrai imparare ad incassarli.
  • Delegare. Lo so che a volte, anzi forse spesso, faresti prima tu a fartelo da solo, ma non è questo il modo di gestire il lavoro delle persone e soprattutto farle crescere professionalmente. “Ghe pensi mi” non è un buon metodo di gestire un team: inizia a sviluppare fiducia nei confronti delle tue risorse. Controllerai dopo il lavoro e darai un feedback (vedi sopra) di miglioramento nel caso abbiano sbagliato qualcosa. E sì, la responsabilità è tua!
  • Saper monitorare. Anche il controllare il lavoro va saputo fare, perché se ogni 5 minuti chiedi “Cosa stai facendo” e “A che punto sei” non stai aiutando il tuo collaboratore a lavorare bene, ma stai facendo pressione che si può ripercuotere negativamente sul lavoro.
  • Gestire il tempo e l’agenda. Monitorare i progetti e il tempo non solo tuo, ma anche dei tuoi, saper fissare dei punti di verifica, creare momenti condivisi o meno. Sull’agenda leggi qui.
  • Saperti dare degli obiettivi SMART. Il che vuol dire, come saprai dall’ampia letteratura, che devono essere misurabili, temporalizzati, realistici ecc e che devi saper coinvolgere anche i tuoi collaboratori nell’aiutarti a raggiungerli.

In effetti sono tante le sfide, e sono sicura che saprai affrontarle con determinazione e strategia!

 

Se stai per fare questo tipo di cambiamento, guarda qui il mio percorso.

Se sei a Milano ad Aprile tengo due workshop su “Fare Networking

Vincere o perdere? Questione di Intelligenza Emotiva

Vincere o perdere. Dipende dal tuo atteggiamento: come vincere lavorando sulla propria Intelligenza Emotiva

Capita di sperimentare dei momenti in cui tutto va storto o qualcosa a cui teniamo molto non va a buon fine.

Cerchiamo lavoro da mesi e continuiamo a fare colloqui senza esito positivo; la promozione che non arriva mai; quel progetto su cui tanto avevamo investito non decolla…

Demoralizzarsi è molto facile in questi casi.

Una cosa che ho imparato dal buddismo e che poi ho consolidato grazie al coaching è che “nella vita puoi vincere o perdere”.

Al di là del significato prettamente buddista, questo principio nasce dal nostro atteggiamento nell’affrontare le difficoltà della vita.

Cosa vuol dire?

Il concetto di “vincere o perdere” si riferisce a un conflitto interiore tra il senso di fiducia e il sentirsi sconfitti, tra continuare ad avere speranza e sentirsi rassegnati, in preda allo sconforto.

Vincere in sostanza significa che, pur avendo sperimentato dei fallimenti o delle delusioni, non ti senti mai sconfitto e continui ad andare avanti a perseguire il tuo obiettivo, cercando di imparare dall’esperienza, riprovando ancora e ancora o comunque cercare di migliorare il nostro approccio, ridefinire il nostro piano d’azione.

Mi spiego meglio: se tu sperimenti un fallimento e comunque non ti arrendi, non ti senti un perdente, hai vinto perché continui a persistere in ciò in cui credi e soprattutto la percezione del tuo valore non cambia, non si lede la fiducia che hai in te e nel tuo progetto.

Puoi anche cambiare strada, se quello che stavi perseguendo alla fine si rivela un buco nell’acqua, puoi trovare un altro modo: è proprio l’atteggiamento interiore che cambia il nostro stato d’animo e ci fa uscire comunque vincenti dall’esperienza pur negativa.

Per non andare lontano nel portare esperienze, qualche giorno fa ho incontrato una persona per proporre una collaborazione per un progetto a cui tengo molto (e a cui sto pensando da un po’) e alla fine del colloquio è emerso che non ci sono spazi per inserire il coaching nella sua realtà di consulenza.

Sicuramente poi non sono andata a ballare la macarena o a brindare con lo Spritz, ma poi ho pensato ai ragazzi che hanno inventato Airbnb. Ora li conosciamo tutti, ma pare che abbiano sperimentato qualcosa tipo 600 (seicento) rifiuti prima di trovare un investitore che veramente credesse in loro. Eppure non si sono arresi! E poi ho pensato a questo principio buddista che mi ha ispirato l’articolo.

Cosa fa la differenza tra un vincente e un perdente?

Per avere l’atteggiamento vincente non c’è bisogno di essere il Dalai Lama, ma semplicemente di allenare la tua intelligenza emotiva. Ne ho già parlato qui e qui.

In particolare, un vincente è forte in queste competenze dell’intelligenza emotiva:

  • Perseguire obiettivi eccellenti: quando i tuoi obiettivi nel lungo termine sono legati a ciò che è importante per te, ai tuoi valori, quello che fai, anche le tue azioni quotidiane sono guidate da questo: ti aiuta a stringere i denti e ad andare avanti, a crederci nonostante tutto.
  • Allenare l’ottimismo: non è la competenza che ti fa assomigliare a Pollyanna, ma è quella capacità che quando le cose si fanno difficili invece di sentirti vittima delle circostanze, ti fa focalizzare sulle soluzioni e sul fatto che in un modo o nell’altro ce la farai e troverai una via d’uscita.
  • Trovare la motivazione intrinseca: è appunto trovare la tua energia e la tua motivazione interiore per andare avanti, e trovarla in ciò che è importante per noi
  • Navigare le emozioni: riuscire a stare in quell’emozione, senza rifiutarla o sopprimerla, o al contrario dandole libero sfogo, ma semplicemente accettarla e utilizzarla come energia “costruttiva”.

Non è facile, lo so,  non sempre si hanno poi le stesse energie per affrontare le “onde alte” nuotando nel mare della vita, a volte si beve un po’, ma l’importante è continuare a dare delle bracciate per arrivare a riva.

E ricordati che l’Intelligenza Emotiva si può allenare!

Dai un’occhiata al mio percorso per allenarti nelle competenze emotive o lasciami un commento, fammi sapere cosa ne pensi!

IL VIAGGIO VERSO L’OBIETTIVO

Tempo di buoni propositi e nuovi obiettivi. Ma l’obiettivo non è solo il fine del percorso che facciamo, ma soprattutto un mezzo per il nostro cambiamento.

È gennaio, un anno nuovo ci attende, ci sentiamo rinnovati e pieni di nuove possibilità. Quindi è il momento di buoni propositi, mettere nuovi (o vecchi!) obiettivi ed è un pullulare di liste, parole dell’anno e tutto quello che in generale ci consente di programmare i prossimi mesi.

Porsi degli obiettivi precisi, temporizzati, concreti è importante, anzi fondamentale.

Questo vuol dire prender i fantastici buoni propositi e trasformarli in obiettivi precisi, si spera realistici, quindi focalizzarli nel concreto, dargli una scadenza e fare un piano d’azione.

Ma lo sai cos’è la cosa più importante di porsi un obiettivo?

Raggiungerlo? Si, certo.

Ma ancora più importante, sul quale mi voglio focalizzare qui, è il percorso che fai per raggiungerlo, un vero viaggio di scoperta e trasformazione di te stesso. È il cambiamento che fai per arrivarci che è la cosa più importante.

In questo senso l’obiettivo è allo stesso tempo il fine e il mezzo per la tua crescita personale, un vero pretesto per il cambiamento.

Ed è proprio quello che si fa con un percorso di coaching.

Decidi le tappe del tuo viaggio

Quando spiego ai miei clienti come si articola un percorso di coaching uso spesso la metafora del viaggio.

Definire l’obiettivo vuol dire decidere dove vuoi andare, in quale direzione: è diverso andare a Roma o Lugano. Anche perché se non sai dove vuoi andare come fai a capire quando sei arrivato?

Una volta decisa la destinazione devi anche decidere quanto tempo ci vuoi mettere, di conseguenza anche che mezzo di trasporto usare.

Il viaggio, a volte, può essere non essere facile: quali risorse ho, oppure quali mi servono o devo sviluppare per arrivarci? Spesso non è come ce lo aspettiamo, spesso crediamo di prendere il freccia rossa e invece ci troviamo in macchina, fermi in coda in autostrada, o scopriamo di poter prendere l’aereo. Sperando di non prendere la bicicletta!

Poi ci possono essere delle deviazioni rispetto alla meta, anche prese consapevolmente: anche se quella deviazione ti allontana dalla strada principale e rallenta il tuo viaggio, visitare quel bel paesino lontano dall’autostrada può avere un significato importante per te.

E dopo il viaggio?

Il viaggio, è sempre un momento di trasformazione e di scoperta, una volta che lo intraprendi non sei più lo stesso. Questo accade anche grazie ad un percorso di coaching.

Cosa succede durante il viaggio?

  • Si verifica un cambiamento. il coaching è lo strumento principe del cambiamento, si fa un percorso per gestirlo o per provocarlo. Ad esempio, riprogrammare il proprio obiettivo professionale. In ogni caso, per arrivarci spesso devi cambiare: nuovi comportamenti, nuove strategie, buttare vecchie abitudini o aprirsi a nuove prospettive.
  • Prendi consapevolezza di te stesso e scopri le tue risorse. Il coach ti aiuta a scandagliare te stesso, mettere nero su bianco le tue capacità e spesso scopri risorse nuove e inaspettate che tu stesso non eri stato in grado di vedere. In questo modo vai rafforzare ciò che c’è già e a migliorare i tuoi punti deboli.
  • Prendi decisioni. Che tu debba decidere dove vuoi arrivare, come arrivarci, quali azioni intraprendere, su cosa vuoi focalizzarti, non puoi scampare, sarai di fronte a continue scelte (o non scelte, il che è sempre una scelta!)
  • Scopri nuove opzioni. Spesso ti troverai davanti ad un bivio o semplicemente davanti alla decisione di continuare su una strada, magari la vecchia (quella che già conosci) per intraprenderne una nuova, e magari anche a contemplare una terza, una quarta.
  • Esplorerai nuovi “territori”. Faccio delle domande la cui risposta spesso è “Bella domanda! Non ci avevo mai pensato”. Ecco, quella è una domanda potente, che apre nuovi scenari e nuove scoperte, una strada nuova che non avevi pensato di percorrere.
  • Incrementi la fiducia in te stesso. Quando persegui un obiettivo, sei “costretto” a creare il tuo piano d’azione e ad agire appunto! Altrimenti cosa racconti al tuo coach nella sessione successiva? E mano a mano che pianifichi e agisci ti scopri capace di fare, ottenere dei risultati e ti stimoli ad andare avanti in un meccanismo virtuoso che accresce la fiducia in te stesso.
  • Impari a focalizzarti sulle soluzioni invece che sui problemi. Com’è liberatorio parlare dei tuoi problemi con il coach, vero? Verissimo, io sono qui per ascoltarti, per farti osservare la situazioni da molte angolazioni, ma anche per farti focalizzare sulle soluzioni, cioè sul “cosa farai tu per risolvere la questione”. Ti ascolto nel mentre che mi dici che il percorso è lungo ed è accidentato, ma ti accompagno anche a trovare nuovi percorsi o a trovare un modo per “guadare il fiume”.

Che momento magico quello in cui ti accorgi che hai raggiunto l’obiettivo!

Come quando alla fine del viaggio, ti guardi indietro e ti sorprendi di tutti i chilometri che hai percorso e di quanto ti senti arricchito.

IL TUO REDDITO RISPECCHIA IL TUO VALORE?

Siamo ciò che pensiamo: l’idea che abbiamo di noi, del nostro valore, le convinzioni su noi stessi influiscono sulla nostra vita, anche su quella “economica”. La storia di Alessandro

“Il nostro reddito non potrà mai superare quell’idea che abbiamo di noi”.

Questa una frase pronunciata da Robin Sharma durante il suo speech ad un evento di formazione di Performance Strategies, “La nuova Leadership”.

È un’affermazione un po’ forte e un po’ provocatoria forse. Almeno io inizialmente sono rimasta un po’ colpita.

Però pensandoci bene, anche se un po’ forte, magari a te appare banale, se unisci tutti i puntini torna tutto.

Magari ti stai dicendo “che stai a dì”, ma non mi ero mai soffermata su questa connessione diretta tra quanto possiamo essere pagati e la percezione che abbiamo di noi stessi, quindi del nostro valore.

Non sto dicendo che se sei un disoccupato o non hai un reddito non vali nulla, come non era questo l’intento della frase di Sharma. Provo a spiegarmi meglio.

Le nostre convinzioni guidano le nostre azioni

Noi siamo ciò che pensiamo. Questo vuol dire che l’idea che abbiamo di noi, del nostro valore, le convinzioni su noi stessi (a volte autolimitanti), influiscono sulla nostra vita, anche su quella “economica”.

È il tuo pensiero che crea la tua realtà” – Robin Sharma

Le nostre convinzioni diventano reali, nel senso che muovono le nostre azioni, e le nostre azioni diventano comportamenti e noi diventiamo i nostri comportamenti.

Henry Ford, nella sua famosissima citazione, diceva appunto “Che tu creda di farcela o di non farcela avrai comunque ragione”.

Perché? Se le convinzioni su te stesso che ti sei creato, ti fanno pensare che sia impossibile fare una cosa, tu non agirai mai affinché quella cosa diventi vera. Questo ovviamente è un meccanismo che lavora spesso a livello inconscio, ma che si può far emergere e cambiare.

Di conseguenza, se noi (inconsciamente o meno) pensiamo di valere poco, di non essere all’altezza, come facciamo a compiere azioni tali per guadagnare di più, per chiedere un aumento di stipendio, o per proporci ad un’azienda di un certo tipo per fare un salto nella nostra carriera?

È ancora più vero per un libero professionista, che pone da sé il proprio listino prezzi e se non si riconosce il proprio valore, quello che porta con il proprio lavoro, rischia di non sapersi far apprezzare (e pagare di conseguenza) per il valore aggiunto che porta.

Le nostre convinzioni sono legate all’idea che abbiamo di noi, e soprattutto alla fiducia che abbiamo in noi stessi.

Ho ripensato al bellissimo percorso di coaching di Alessandro, che avevo seguito nel primo anno da coach certificata.

La storia di Alessandro

Alessandro lavorava in un piccolo distaccamento della management company di una banca italiana in Lussemburgo, dopo un’esperienza in una importante Società di Gestione del Risparmio in Italia a Milano.

Aveva fatto questo cambiamento proprio per portare avanti la sua carriera che finora era andata a rilento, in un’azienda molto strutturata e poco dinamica, salvo poi trovarsi nella stessa situazione nella nuova posizione.

Era stato assunto in un ruolo di referente con la responsabilità di una funzione, gli avevano appena assegnato anche un’altra mansione.

Quando abbiamo cominciato non si riconosceva neanche il nuovo ruolo nella firma digitale della mail e non aveva richiesto, come gli era stato suggerito da un senior, di aggiornare il biglietto da visita di conseguenza.

Alessandro ha iniziato il percorso con me perché voleva gestire il cambiamento di maggiori responsabilità, migliorare il rapporto con le persone in azienda, in particolare con un senior, che pur non essendoci un riporto gerarchico o funzionale lo trattava come un sottoposto o gli chiedeva di fare dei lavori per lui.

Sentiva poi la mancanza di un mentore che lo guidasse, e non si sentiva riconosciuto anche dai colleghi a causa della sua giovane età.

Buttarsi da un trampolino sempre più alto

Abbiamo lavorato su queste tematiche andando anche ad agire sulla fiducia in sé stesso, che era ovviamente intersecata con tutto e il nodo della situazione.

Ogni volta che, con l’azione, si spingeva più in là verso l’obiettivo, cresceva anche la fiducia in se stesso, usava la metafora del “buttarsi da un trampolino sempre più alto“.

Fino a che, raggiunto il suo primo obiettivo, si è sentito pronto per affrontare il mercato esterno, verso un’altra posizione che gli permettesse di imparare cose nuove e anche di avere una retribuzione più alta.

E “saltando da un trampolino sempre più alto” alla fine ha trovato un nuovo lavoro, in una prestigiosa banca svizzera. Con uno stipendio raddoppiato e con un nuovo ruolo che andava a soddisfare il suo obiettivo professionale.

Non è una questione di fortuna. Alessandro ce l’ha fatta perché era fiducioso nelle sue capacità e ha avuto la voglia di mettersi in gioco per uscire dalla sua zona di confort e sfidare le convinzioni che lo limitavano e non gli facevano credere che avrebbe potuto ambire a qualcosa di più.

Senti anche tu che le tue convinzioni ti stanno limitando nel fare carriera o nel farti riconoscere anche economicamente il tuo valore?

Contattami, valuteremo insieme, senza impegno, se (e in che modo) posso esserti di aiuto e quale percorso è più adatto per te.

Settembre è vicino ormai, se stai pensando di porti nuovi obiettivi  o verificare a che punto sei con quelli posti ad inizio anno, questo è un buon momento.

SCRIVI:: cmelis@coachingpower.it

VISITA:: https://www.coachingpower.it/lavora-con-me/

POSSO DARTI UN FEEDBACK?

Il feedback è uno degli strumenti di comunicazione più preziosi per un leader, come nel team e con i clienti. NON è un consiglio, un parere o un giudizio. Lo sai dare in maniera corretta?

“Posso darti un feedback?” è una domanda che pongo spesso come coach.

Nel coaching si chiede il permesso perché il coachee potrebbe non essere pronto a riceverlo. In azienda e nel campo professionale, può succedere di darlo (e allo stesso modo lo riceviamo) senza tanti preamboli, o senza strutturarlo bene, e rischiamo di non ottenere l’effetto che desideriamo, facendolo diventare un boomerang.

Dare un feedback efficace non è semplice, dovrebbe essere pensato in modo tale per cui il messaggio arrivi in maniera corretta, perché è il modo in cui diciamo le cose più del contenuto che determina il successo o meno della comunicazione.

Ma cos’è il feedback?

Feedback in italiano si traduce come “riscontro, verifica, confronto”, ma è ormai un termine di uso comune nel campo professionale.

Contraddistingue una comunicazione verso un’altra persona (o un gruppo) dove facciamo delle osservazioni costruttive circa un suo comportamento, lo svolgimento di un compito o mansione.

Nel coaching il feedback è un “regalo”, qualcosa che il coach vede, attraverso l’osservazione di comportamenti o fatti concreti, e vuole restituirlo al suo cliente per aiutarlo ad allargare la sua visione o farlo crescere, sostenerlo nel fare un passo avanti verso l’obiettivo; ma può essere anche un riconoscimento, un input per farlo riflettere sul percorso che ha fatto.

Oltre ad essere uno strumento importante e prezioso nel coaching, allo stesso modo, lo è nella vita professionale. Quasi tutti i giorni ricevi dei feedback dal tuo capo e dai tuoi colleghi, tu lo dai al capo e ai tuoi colleghi, i clienti non fanno altro che “regalarteli”, e viceversa.

L’anno scorso all’evento “I 4 pilastri della Leadership” di Performance Strategies 3 relatori su 4 (Daniel Goleman, Dan Peterson e Giuseppe Vercelli, per intenderci) parlando di come dovrebbe agire buon Leader si sono soffermati a parlare anche del feedback.

Il feedback positivo, questo sconosciuto

Mi è capitato di leggere recentemente degli articoli sui benefici del feedback e di rimanere stupita dal fatto che si soffermasse solo sul feedback di miglioramento, quello negativo per intenderci, dove fai osservare solo i comportamenti che non vanno bene o sono appunto migliorabili.

Questo riflette un po’ la tendenza nel mondo aziendale, ma oserei dire anche nell’ambito personale, a concentrarsi su quello che non va, e di non rilevare ciò che va molto bene!

Il feedback di riconoscimento, o feedback positivo, si dà quando si riconosce una qualità positiva all’altro o lo incoraggia, indicando che quella è la direzione giusta.

È un ottimo modo per creare fiducia, spirito di collaborazione e squadra, di rafforzare una relazione, oltre ad essere utile per chi lo riceve in termini pratici (“finalmente sono riuscito a far bene quel report” “ora ho capito bene cosa voleva il mio capo”) sia perché la persona si sente riconosciuta per quello che fa.

Quindi abbondate di feedback positivi! Provate a prendere l’abitudine di darne almeno un paio al giorno.

Per un feedback perfetto!

Quindi qualche regola/suggerimento per dare un feedback efficace.

  • Il feedback si basa sull’osservazione e la rilevazione dei comportamenti e fatti concreti deve essere il più possibile oggettivo, concreto e specifico, come per esempio lo sforamento delle tempistiche, dei dati non corretti, una tabella poco chiara, la mancata applicazione di una procedura. Usa parole tipo “ho osservato, ho rilevato che..”
  • Chiediti innanzitutto se è utile e a chi: che obiettivo vuoi raggiungere con la tua comunicazione? Portare avanti il progetto, correggere un comportamento di un collaboratore, migliorare l’efficienza di una procedura, creare maggiore spirito collaborativo o di squadra, motivare un collega.
  • Il feedback non è un consiglio o un parere, deve essere il più possibile neutrale
  • Non è un giudizio. Non dare giudizi sulla persona “Tu sei così”, ma riferisciti ai comportamenti, soprattutto non usare parole tipo mai o sempre. Cerca l’apertura facendo domande. Ad esempio “ultimamente sei sempre in ritardo!” ma piuttosto “ho notato che ultimamente arrivi in ufficio più tardi del solito, c’è qualcosa che non va?”
  • È un’occasione di crescita sia per chi lo riceve che per chi lo dà.
  • In generale, sii più abbondate con i feedback di riconoscimento.
  • Prima del feedback di miglioramento, cerca di inserire sempre quello positivo (si, c’è qualcosa di positivo che puoi dire! trovalo).
  • Il feedback negativo va dato in privato, mai davanti a tutti o i colleghi perché risulterebbe umiliante e probabilmente otterresti l’esatto effetto contrario.
  • Può sembrare banale, ma non lo è: gestisci le tue emozioni e cerca di essere il più possibile calmo. Se alzi la voce o sei troppo “ruvido” probabilmente non verrai ascoltato.
  • Dai il feedback nel giusto contesto. Non aspettare troppo a fare quelle osservazioni o quel complimento, spesso è meglio affrontare subito le situazioni o sfruttarle per dare la giusta direzione alla squadra o al progetto.
  • Dopo aver dato il feedback chiedere alla persona cosa ne pensa di quello che hai appena detto, servirà ad aprire il dialogo e il confronto.

Hai anche tu delle tecniche per dare i feedback? Vuoi condividerle con me?

Se vuoi migliorare la tua tecnica nel dare i feedback o la tua comunicazione, scrivimi all’indirizzo cmelis@coachingpower.it per fare una chiacchierata senza impegno: troveremo la soluzione giusta per te!

 

 

CE L’HAI IL PIANO B?

Se alla mattina andando in ufficio hai il mal di pancia o non ti vedi tutta la vita a fare lo stesso lavoro hai bisogno di un “piano B”

A luglio ho iniziato a lavorare con un cliente sul suo “piano B“. Giacomo è alla ricerca di un nuovo lavoro, a causa di una ristrutturazione aziendale, ma vuole sfruttare l’occasione del percorso di coaching per di verificare l’esistenza di un’altra strada possibile, che magari senta più appagante, alla sua già brillante carriera professionale ben tracciata da anni.
Sempre più sento persone che vorrebbero rimettersi in gioco o sono annoiate dal loro lavoro. Certo ci si può anche accontentare o “arredare il tunnel“, come scrivevo in un mio precedente post, ma valutare un cambiamento lavorativo è “gratis” poi si può decidere di non attuarlo e riporlo nel cassetto, insieme agli altri sogni.

In effetti, quando scegli il percorso di carriera, l’università o il lavoro che farai da grande, puoi essere poco consapevole di quali siano le tue attitudini e di cosa ti piace fare davvero, spesso facciamo scelte “razionali” senza fare un vero bilancio di competenze e di opportunità. Io, per esempio, non ero totalmente conscia che avrei potuto sfruttare altre mie attitudini oltre al fatto che mi piacessero “i numeri”.
Nel corso degli anni, poi, puoi anche scoprire che il lavoro che tanto desideravi fare in realtà ti annoia a morte o è molto diverso da come te lo eri immaginato. Sono cose che succedono anche nelle migliori famiglie!

O semplicemente sei cambiato tu! Dopo anni della “stessa minestra” è possibile che tu voglia vedere un’altra prospettiva o comunque dare una svecchiata alla tua vita professionale, cambiando azienda o magari solo mansione.
È il famoso problema dello svegliarsi la mattina e avere il pensiero di andare in ufficio con il mal di pancia.

Altre volte non è una scelta dover riconsiderare le scelte professionali fatte anni prima, magari anche contro la propria volontà, come nel caso di Giacomo: una ristrutturazione aziendale che ti riassegna in un nuovo compito, l’azienda che chiude, una fusione. Andiamo incontro ad un mercato del lavoro sempre più flessibile ed esigente, che richiede nuove figure e smette di cercarne altre.

Scongiurando eventi “nefasti”, tutto può succedere. Per questo è importante avere un piano B (ma anche C e D), per non farsi prendere alla sprovvista se le cose si modificano improvvisamente e sei costretto a fare delle scelte forzate. O solo per avere una possibilità in più rispetto a quello che hai ora, per non scegliere un lavoro basandoti sul “meno peggio”.

È l’occasione per chiederti cosa vuoi veramente dalla tua vita lavorativa, di ribaltare il concetto del “lavoro a vita” come lo vedeva la generazione dei nostri genitori, e la concezione del lavoro visto come dovere e non come scelta personale, magari piacevole.

Attenzione, non sto parlando di dimetterti in tronco per espatriare e aprire un chiringuito in Brasile o di vendere tutto e metterti in viaggio come travel blogger per il mondo (o forse è quello che farai), ma di aprire il tuo orizzonte di possibilità, scoprire o spolverare le tue competenze, tirare le somme da cosa hai imparato nel tuo lavoro finora, cosa hai rafforzato e in cosa ti sei scoperto bravo (o lo scoprirai!)

Ok, ma come lo faccio il piano B?

Ti propongo una serie di riflessioni e domande che ti aiuteranno ad iniziare ad allargare la tua visione del lavoro e a focalizzare altre possibili strade.
Prendi carta e penna e iniziamo!

Fai il bilancio delle tue competenze
Ma quali sono i tuoi talenti? Mi spiego meglio: quali sono quelle attività che tu fai, ti vengono bene e ti viene semplice fare, magari divertendoti? e lo faresti anche gratis proprio perché ti diverte!

È la concezione del lavoro come gioco, come introduce il libro “Mollo tutto: e faccio solo quello che mi pare” di John Williams che ha aiutato me a focalizzare quali fossero i miei talenti.
Una delle prime cose sul quale chiedeva di domandarsi era: “Qual è quella attività che ti piace fare e che ti sembra di fare giocando?”.
Io mi ero riconosciuta ad esempio la capacità di ascoltare e sostenere le persone, anche quella di far fare un ottimo shopping alle mie amiche, ma ho deciso di non utilizzarlo, per ora!

Scrivi quali sono i tuoi possibili talenti, anche quelli che ti sembrano cose banali! Tipo “organizzare weekend con itinerari fuori città per gli amici”.

Quali caratteristiche deve avere un lavoro per te?
A cosa non potresti proprio rinunciare? sono quelle caratteristiche che il lavoro dovrebbe avere per te, assolutamente.
Ad esempio:

  • imparare cose nuove continuamente,
  • una routine bene consolidata,
  • metterti in relazione alla gente,
  • viaggiare,
  • un buon equilibrio lavoro/tempo libero
  • stare in ufficio,
  • stare all’aria aperta,
  • ben pagato,
  • possibilità di crescere,
  • avere orari flessibili

Quali sono i tuoi valori?
Fai un elenco di “cosa è importante davvero per te” e intendo qualcosa che va ben oltre l’ambito lavorativo, sono i tuoi valori, qualcosa su cui non sei disposto a passare sopra. Come ad esempio la famiglia, la stabilità, lo status sociale, la serenità, giustizia sociale, ecc.

Descrivi la tua giornata ideale
Ora prova a descrivere la tua giornata lavorativa ideale.
A che ora ti svegli? A che ora inizi a lavorare? In che zona è la tua sede di lavoro? Ti muovi a piedi, in macchina, con i mezzi? Vai in un ufficio open space? Lavori in un coworking? Sei in giro per clienti? Com’è il tuo abbigliamento di lavoro? quali strumenti informatici usi? Hai molti appuntamenti? Lavori da solo o in team?
Non porti limiti, pensala proprio come la desideri in ogni dettaglio.

Ok, e ora?
Ora rileggi il tuo foglio in tutti i punti, e vedi quali sono i punti che si intersecano, vedi qualcosa?
Ovviamente questa è una piccola base per iniziare una “grande riflessione”, la fase preliminare di un eventuale percorso. Magari hai scoperto rispondendo alle domande che il lavoro che già fai è il lavoro che fa per te.

Condividi con me le tue riflessioni, lascia un commento o scrivimi! cmelis@coachingpower.it